Questo articolo è stato scritto di getto. È un rant, uno sfogo di pancia che ha un duplice obiettivo: il primo, appunto, è sfogarmi; il secondo è sollevare dei punti di riflessione. Cercherò di essere il più lineare possibile nei miei deliri, e forse alla fine scopriremo assieme che tanto deliri non sono.
Poco fa leggevo una notizia su un videogioco di nuova uscita, Hellblade, in cui ogni morte, contestualizzata narrativamente all'interno del gioco, porta la protagonista ad ammalarsi fino ad intaccarle definitivamente il cervello. A quel punto scatta il permadeath, tutti i salvataggi vengono cancellati ed è necessario ricominciare tutto da capo. L'utenza si è spaccata in due e molti giocatori hanno criticato aspramente questa scelta degli autori, chiedendo a gran voce una modalità opzionale più facile e priva di questa meccanica.
Il fatto è questo: la meccanica di Hellblade è una chiara scelta autoriale atta a veicolare determinati messaggi e a legare meccanica e narrazione in modo da spingere i giocatori ad esperienze mirate, ma siccome siamo così abituati a considerare il videogioco come un'esperienza personale e modellabile attorno alle nostre esigenze, non riusciamo ad accettare la possibilità che i designer abbiano deciso di progettare un gioco in un certo modo per seguire determinate istanze artistiche, esperenziali o di significato. Non siamo in grado di accettare il fatto, semplice e in teoria scontato, che nessun gioco può essere adatto a tutti e che se qualcosa non fa per noi, invece di chiedere a gran voce di omologarne l'offerta per assecondare i nostri gusti, possiamo limitarci a lasciarla sullo scaffale.
Se questo problema è sentito persino nel mondo dei videogiochi, per loro natura opere difficili da modificare e più legate alle volontà dei designer, figuratevi nell'ambiente dei gdr, dove la cultura delle house rules e dell'utilizzare sempre lo stesso sistema (dove per sistema si intendono le regole e le procedure realmente utilizzate al tavolo, che possono comprendere o meno le regole presenti nel manuale) è ampiamente diffusa e accettata. Ancora più che nei videogiochi, l'idea di massa è che il gioco di ruolo sia un'esperienza personale costruita attorno al gruppo di gioco da un Game Master, e che le regole di un gioco non siano che consigli da seguire o meno in base ai propri gusti.
Ogni gruppo gioca nel suo modo, spesso impiegando anni e fatica per trovare il giusto equilibrio tra tutti i gusti personali dei partecipanti. Si formano così tante tribù, le quali si tramandano un modo unico di giocare che utilizzeranno con ogni gioco, indipendentemente dal suo regolamento, semplicemente importando le loro procedure rodate (il loro sistema); quando un gioco rende loro difficile giocare nel modo in cui sono abituati, perché magari presenta una focalizzazione differente o forti idee di design, invece di giocarlo com'è scritto e capire come mai chi lo ha creato ha deciso di farlo proprio in quel modo, ne stravolgono le meccaniche e le procedure per omologarle alle esperienze a cui sono abituati (spesso persino inconsciamente); in altri casi ne mutilano dei pezzi, implementandoli poi su un altro regolamento, senza star troppo a pensare che gli elementi di un gioco sono progettati per lavorare in concerto tra loro e prendere un pezzo da una parte per incollarlo su un altro potrebbe non avere molto senso.
Detta in parole molto povere, quello che i gruppi di gioco fanno (o sarebbe meglio dire: quello che i GM di quei gruppi fanno) è inconsapevole game design. Data la storia del media GDR, sono così abituati a dover modificare un gioco per farlo funzionare in un modo a loro congeniale, che lo fanno in automatico con qualsiasi titolo capiti loro sotto le mani.
Mettiamo subito le cose in chiaro: non ho nulla contro le house rules e con la possibilità di hackare e modificare i giochi. Un sacco di giochi che adoro sono hack di altri giochi, e io stesso l'ho fatto svariate volte e continuo a farlo, ma quando lo faccio è perché conosco il motore su cui sto mettendo le mani e quello che voglio fare è game design, in modo da ottenere esperienze nuove, significati nuovi, insomma, un gioco nuovo. Il punto è proprio questo: prima di modificare un gioco lo si dovrebbe provare per come è stato scritto, diventare consapevoli delle sue procedure ed esperti di quel motore. Non sto affatto dicendo che le regole di un gioco siano sacre e vadano seguite ciecamente pena il venir manganellati dalla polizia del gdr finché non vi pentite nel nome di Gary Gigax e Ron Edwards; quello che sto dicendo è una cosa diversa e più sottile.
Quando un designer scrive le regole del suo gioco in un modo piuttosto che in un altro lo fa per un motivo: vuole spingervi a seguire determinati comportamenti al tavolo in modo da ottenere determinate esperienze. Pensate che giochi come Trollbabe, Cani nella Vigna o Polaris siano stati scritti in quel modo, con quelle regole, perché un giorno i loro designer si sono svegliati dalla parte sbagliata del letto e hanno deciso che sarebbe stato anarchicamente figo inventarsi regole bislacche? No, lo hanno fatto in seguito a un ragionamento e a una necessità autoriale: come faccio a fare in modo che chi gioca al mio gioco ottenga l'esperienza X? La risposta a questa domanda sono regole e procedure precise che, se seguite, spingono i giocatori ad attuare comportamenti che da soli non avrebbero mai attuato, e quindi a ottenere, di rimando, l'esperienza X desiderata.
Un designer spende ore, fatica e materia grigia per tirare fuori regole e procedure coerenti capaci di spingere i giocatori a ottenere determinati obiettivi, e lo fa perché vuole comunicare determinati messaggi, suscitare determinate esperienze, esplorare determinate tematiche. Scrive il suo gioco sull'onda di un'istanza creativa precisa, forse perché ha bisogno di dire qualcosa e di spingere qualcun'altro ad esperienze per lui importanti (per esempio: il mio amico Stefano sta scrivendo un gioco sulla storia dei moti di Stonewall perché ci tiene a comunicare quei fatti e quei temi); quel gioco è il SUO gioco, lui ne è l'autore e lo ha disegnato in quel modo per sue precise esigenze artistiche, in modo da spingere chi lo gioca ad agire e pensare in maniera diversa. Nessuno vi obbliga a seguirne le regole, ma se lui creatore le ha scritte in quel modo, c'è un motivo. Non siete curiosi di sapere perché? Non volete provare un'esperienza diversa da quella a cui siete abituati? Non volete affidarvi un attimo all'autore e vedere un po' cos'ha di interessante da dirvi? Non volete per un attimo abbracciare un diverso modo di pensare?
Se aprite il gioco che ha scritto, ne ignorate le regole e lo giocate nel classico modo in cui siete abituati, perché il gioco deve essere progettato attorno a voi e nessuno può dirvi come giocare, non state solo, in un certo qual senso, mancando di rispetto al designer; vi state perdendo un'esperienza nuova in favore di una che conoscete già e che sapete già cosa può offrirvi; state mancando l'opportunità di imparare qualcosa di nuovo, di arricchire la vostra esperienza e di concepire il gioco (ma non solo) in un modo un po' più nuovo e un po' diverso da prima.
State, insomma, impoverendo l'immaginario, omologando ogni gioco a un unico modo di giocare, perdendo così sfumature e messaggi nuovi. Detto in maniera brutale ed esagerata, se il frutto di un lavoro creativo è veicolare un messaggio, state zittendo bruscamente l'autore di quel messaggio, state dicendo ad alta voce che non vi importa quello che ha scritto e il motivo per cui lo ha fatto; dimostrate che vi importa solo piegare le sue "parole" alle vostre necessità, piccati dal fatto si sia permesso di scrivere qualcosa non in vostra funzione, ma magari in funzione di un target diverso, o persino di se stesso.
So bene che imparare un nuovo regolamento e provarlo richiede tempo, e so bene anche che un'esperienza nuova può benissimo non piacere (ma anche fosse, non ne uscireste comunque arricchiti?); per questo motivo sarebbe necessaria una critica ludica di qualità migliore, che possa indirizzare l'utenza verso giochi nuovi in maniera consapevole, in modo da sottolineare ed evidenziare le scelte artistiche e stilistiche dei vari autori invece che omologare le analisi ai gusti della massa.
In mancanza di tutto questo, quello che vorrei ardentemente passasse è questo concetto: un gioco è un'opera creativa che veicola messaggi e spinge a determinate esperienze. Viviamo in un'epoca in cui siamo chiusi nelle nostre piccole oasi di omologazione, sordi ai messaggi che ci vengono dall'esterno. Per una volta, anche una sola, non sarebbe bello uscire da quell'oasi e aprirci a dei messaggi nuovi, sforzandoci di capire come mai un autore ha scritto un certo qualcosa, invece di prendere quel qualcosa, mutilarlo e piegarlo ai messaggi che già conosciamo?
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