Uno non fa in tempo a uscire dal nuraghe in un bel giorno d’autunno (noi nuragici prendiamo seriamente questo fatto degli equinozi), per scoprire che, udite udite, Lovecraftesque ha vinto il Gioco di Ruolo dell’anno. Eh? Sogno o son destro? Come molti, anche io davo per scontata la vittoria di un certo drago, però i giudici del concorso hanno voluto trollarci tutti demolendo le poche certezze che avevamo.
Siccome ho tempo da buttare, mi va di parlare brevemente di tutti e cinque i finalisti al premio, dandovi il mio sicuramente non richiesto parere per, magari, creare spunti di discussione.
Dungeons & Dragons 5
Il babbo, il grande favorito, il mostro imbattibile. Ci sono state polemiche su quanto fosse pertinente far partecipare e premiare il solo Player’s Handbook, per molti (me compreso) non sufficiente per giocare, ma sorvolerò e parlerò della ciccia. Il gioco com’è? È la migliore incarnazione di D&D ad ora esistente, senza se e senza ma! È un gioco riuscito? A metà, nel senso che saputo utilizzare può essere funzionale, ma si contraddice molto, risulta un po’ incoerente in molte sue parti e di sicuro non può essere considerato uno snello entry level (se tutto il gruppo, GM compreso, è composto da niubbi, auguri).
Ovviamente non mi aspettavo chissà quale lavoro di design, so che ci sono limiti intrinsechi al progetto e al brand, nonché imposizioni dall’alto, e il gioco di per sé non è altro che una 3.5 semplificata con qualche spruzzata di 4e qua e là, ma di sicuro ha alcune migliorie rispetto alle edizioni precedenti, come i background, la meccanica dei vantaggi/svantaggi e la semplificazione delle abilità. Doveva vincere? Boh, so solo che se avesse vinto non si sarebbe scandalizzato nessuno, anzi. D&D è un brand imponente, capace di polarizzare le attenzioni e, secondo alcuni, addirittura di rimettere in moto l’industria (non sono d’accordo, ma ne parleremo in altre sedi, semmai); forte di una produzione titanica e di un manuale piacevole, ben tradotto da Asmodee anche se dispersivo e spiegato male in alcune sue parti, era il grande favorito.
Sono contento non abbia vinto? Un po’ sì, perché per me il design di qualità è importante e D&D non brilla certo in quel senso, proprio per nulla direi. Avrei rosicato se avesse vinto? No, sinceramente me ne sarebbe importato poco e, anzi, avrei sicuramente preso la palla al balzo per scrivere quella recensione che probabilmente non scriverò mai perché sono troppo pigro. Picchiatemi, perché ci ho giocato tutta l’estate con 3 (3!) campagne brevi e ancora non ho scritto nulla di sensato in merito. Sciagura a me, sciagura a me.
The Sprawl
Siccome Nikola mi paka, di sicuro parlerò benissimo di questo PbtA edito da Dreamlord Press. E invece… ecco, è carino, sfizioso, fa quello che promette, però l’ho sempre trovato troppo ingessato, poco ispirato nelle mosse e nelle meccaniche, come una specie di compitino svolto bene ma privo di personalità e guizzo creativo. Ora, capitemi, è un gioco che funziona: come ho detto, si promette di far giocare storie cyber-punk e ci riesce, grazie alle procedure per la creazione condivisa delle coorporazioni e dello sprawl (sprollo per gli amici), quell’ammasso abitativo, metropolitano e periferico che contiene feccia, umanità disperata, innesti cibernetici e schiavitù al tempo del capitale, però lo fa come un alunno che ti presenta il compito da 7, 7 e mezzo.
E il manuale? Il manuale è ben scritto, molto facile da consultare e sfogliare, con tutta una serie di procedure chiare da seguire, specialmente in fase di creazione dei personaggi e della campagna, perdendosi un po’ per strada quando deve spiegare la Matrice, le mosse della Matrice e tutte le cose legate al mondo virtuale. Non è Cyberpunk 2020 eh, dove era impossibile giocare un hacker assieme ad altri personaggi, però mi sarei aspettato qualcosa di più ispirato.
Non lo avrei fatto vincere, qualunque fossero stati i parametri del concorso, e infatti non ha vinto. Forse non l'avrei nemmeno inserito nella cinquina dei finalisti, ma di sicuro non credo fosse stonato là in mezzo. Ripeto: poteva essere fatto meglio, ma funziona. Tanto basta.
Cabal
Cabal è uno di quei giochi scritti con una passione e una dedizione totali e brucianti. Si vede. Lo noti dalle illustrazioni, molto belle e riuscite; lo noti dal setting, di sicuro ispirato e interessante; lo vedi dalla forza con cui gli autori ci hanno creduto, lo hanno spinto, lo hanno portato ovunque. Ammiro questa dedizione, che andrebbe premiata, ma il gioco è bruttino. È un gran bel setting, bello gritty e dark come piace a noi italiani (seriamente, prima o poi dovrò capire come mai scriviamo solo setting così noi; cioè, pure io ne sto scrivendo uno così, che abbiamo di sbagliato?), ma poi di tematico e coerente c’è ben poco.
Il design è quello dei grandi giochi tradizionali anni ‘90. Tanti parametri e numeri, tante regole per simulare la fisica del mondo, un sistema di combattimento che strizza l’occhio al wargame di D&Diana memoria, ma poi null’altro. È uno di quei giochi che non ti spiegano davvero come si gioca, non ti danno procedure, dei veri macigni da far girare. Il GM deve sobbarcarsi tutto e ignorare quello che va ignorato per il bene della sua storia. Insomma, il classico gioco anni ‘90. Però siamo nel 2018, il design dei giochi ha fatto passi da gigante e ora i tradizionali da battere sono cose come 7th Sea e Numenera che, per quanto ancora acerbi, sono anni luce avanti in fatto di consapevolezza ed eleganza.
Penso sia un gioco da bruciare? No, per nulla, anche se lo reputo un brutto gioco. Ha intuizioni interessanti, e per quanto spezzi il cuore vederle annegare in un regolamento così poco funzionale, c’è dietro tanto amore e tanta passione. Questi ragazzi italiani hanno scritto un’ambientazione interessante, che vi consiglio se amate le cose esoteriche, misteriche e dark. Inoltre, l’editore GG Studio andrebbe premiato anche solo per il coraggio di presentare due giochi tanto diversi e tanto antitetici tra loro (l’altro è Be-Movie, di cui parlerò tra poco). E’ così che si fa, tanta apertura mentale e tanto supporto ai designer italiani.
Be-Movie
Vorrei tanto dirvi che il gioco fa cagare per fare un dispetto a Helios, ma in realtà... è bello. È un gioco che funziona, che fa quello che promette e lo fa con eleganza, con consapevolezza dei mezzi e senza mai prendersi sul serio nemmeno per sbaglio. È un manualino snello, illustrato in maniera grottesca e funzionale allo scopo, che leggi con gusto e ti spiega abbastanza bene le procedure del gioco. Un gioco che, va detto subito, uccide tutte le vacche sacre del gdr: non c’è il master, non si tirano i dadi né si usa qualsiasi sistema aleatorio, non ci si fa una campagna, non si prepara una storia prima. Fuck yeah!
Mi dà l’idea di un incrocio tra Avventure in Prima Serata e Fiasco, dove però sono stati presi solo i pregi di entrambi i giochi. È un prodotto perfetto? No, ovvio. Può impanicare chi soffre di sindrome da foglio bianco, richiede giocatori molto proattivi e smaliziati e non è per tutti i palati, perché è un prodotto di nicchia che va fiero di esserlo (niente lista di armi, né regole per combattere, né punti ferita, tutto narrazione baby), però ecco, è tutto lì, perché per il resto è un ottimo entry level e se amate i film trash dal basso budget vi farà impazzire.
Il problema maggiore? È un gioco di Helios, e non possiamo fargli troppi complimenti altrimenti si monta la testa. E questo non lo vogliamo, vero? Pensate se avesse vinto, non oso nemmeno immaginarlo. Certo, se lo sarebbe meritato, ma che disastro poi…
Lovecraftesque, il vincitore
Io e la giuria del GDR dell’anno che siamo d’accordo sul vincitore? Raga, domani scoppia l’apocalisse, io vi avverto. Facili battute a parte, sono felice abbia vinto Lovecraftesque, perché era oggettivamente il gioco migliore tra i cinque finalisti. Al di là di qualche refuso, l’edizione italiana migliora, chiarifica e rende più accattivante tutto quello che di buono era stato fatto nell’edizione inglese, e sono sicuro che la geniale idea delle illustrazioni nascoste da scovare con la lucina abbia stregato la giuria del premio.
Il gioco in sè è un piccolo capolavoro, per ora l’unico gioco esistente a ricreare per davvero le storie alla Lovrecraft, e ci riesce anche se nessuno al tavolo ha mai letto Lovecraft! Come diavolo fa, direte voi, e beh... basta seguire le regole, perché sono scritte in modo tale da gestire la struttura dei racconti dello scrittore di Providence, e non l’ambientazione dei Miti. Non c’è un GM in senso stretto, ma ruoli precisi che ruotano di scena in scena, esattamente come ruota l’utilizzo dell’unico personaggio giocante. Di scena in scena, i giocatori dovranno fare ipotesi sull’orrore finale, ma sempre cercando di non tirare in ballo spiegazioni soprannaturali. Il soprannaturale infatti, da regole, viene inserito con il contagocce, fino alla macabra e violenta rivelazione finale.
C’è chi dice che tira più un pelo di Cthulhu che un carro di buoi, e forse è vero, ma Lovecraftesque è il gioco su Lovecraft con meno riferimenti ai miti in assoluto, tanto che non vengono mai citati e non presenta nessuno dei mostri famosi. Tutto va creato dai giocatori al tavolo, in modo che siano loro a dare vita ai loro miti personali. Insomma, un gran bel gioco che sono felice sia stato premiato in questo modo. Giuria, mi avete davvero stupito, tanto di cappello per questa trollata definitiva e finale.